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Da Ferguson a New York, questioni di razza e di giustizia

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Razzismo, ingiustizia, rabbia, paura.

C’è tutto questo e molto di più nell’ondata di protesta seguita alla recente decisione del Grand Jury di non incriminare il poliziotto che in agosto a Ferguson, in Missouri, ha sparato e ucciso Michael Brown, adolescente disarmato (e dopo un analogo episodio a New York). Ci sono molte voci, sui media, sui social, che parlano di questo. La mia riflessione parte da alcune di queste voci, raccolte, lette o ascoltate, e propone un’interpretazione che non parla solo degli Stati Uniti. Il Presidente Obama ha rivolto un messaggio alla nazione, sforzandosi di restare in equilibrio – precario – tra la legittimità della decisione del Grand Jury e le motivazioni della rabbia contro la brutalità della polizia che troppo spesso nelle città USA attacca il “giovane uomo nero”. Il Presidente ha cercato di restare in bilico, e non si è sporto troppo in avanti, non abbastanza per leggere la decisione del Grand Jury come l’esito della secolare sequenza “razzista” perpetrata contro le persone di colore, nascosta dalla legge e dalla legalità, e offuscata dalla convinzione di vivere in una società di uguali. Il Presidente forse questo non lo può dire. I fatti di Ferguson (e quelli di Cleveland, e quelli precedenti, moltissimi) sono tracce evidenti di una società pur regolata da leggi, ma che non garantisce la giustizia sociale per tutti.

Ancora una volta il razzismo offusca la legge.

I neri a Ferguson e altrove temono le leggi e temono il sistema che li dovrebbe proteggere. Ogni giorno, le madri dicono ai figli quali sono le regole, il comportamento da tenere verso la polizia. In senso lato, essere neri in America significa camminare, respirare, muoversi, parlare in un modo speciale. Lezioni che si imparano dalla propria classe, dal proprio genere, e dalla propria etnicità, lezioni di cui il popolo nero americano – come molti altri gruppi in altri Paesi – farebbe volentieri a meno. I discorsi contro il razzismo, in generale tutto l’ambito del politically correct, basati sull’idea che l’essere neri o gialli o bianchi non ha nulla a che fare con ciò che una persona è, sono un errore. Portano a parlare di razza e razzismo in un modo separato dalla realtà.

Ferguson non è una sorpresa.

E’ l’ignoranza di ciò che è la razza, è l’ennesimo esito della crescente separazione e ineguaglianza che caratterizza le vite negli Usa (e altrove). Se le persone credono che la “razza” sia biologia, che sia naturale, vedono le differenze, i conflitti, e le relazioni fra neri, bianchi, latinos come iscritte nella natura. E tale convinzione di “naturalezza” consente alla società americana di ignorare le proprie responsabilità. La responsabilità per tutti gli squilibri sociali e le disuguaglianze: il fatto che la mortalità infantile sia il doppio per i neri rispetto ai bianchi; il fatto che i neri in carcere sono sei volte di più di bianchi e latinos e tre volte di più dei bianchi, e che neri e latinos, il 30 per cento della popolazione, contino il 58 per cento della popolazione carceraria. La statistica sarebbe lunga.

Le differenze e le disuguaglianze non dipendono dalla nostra natura, ma da ciò che abbiamo fatto e facciamo, come società.

Disuguaglianza, separazione, discriminazione, razzismo e la violenza strutturale crescente che provocano sono responsabilità sociale. Non si può continuare a aspettare eventi orribili come l’uccisione di un ragazzo da parte della polizia per agire e cambiare. Gli eventi di Ferguson non sono isolati, né sono solo fra bianchi e neri. Parlano di un’intera nazione solcata da una separazione razziale netta, esplicita, che ci si illude di poter ignorare, ma finché non si spezzerà il ciclo del razzismo (e delle razze), della paura, dell’ignoranza, non cesseranno di accadere.


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